Carlo Benedetti

 

 

 

Il ricordo di una Fermo sepolta nella sua vita sociale e politica, sotto il fascismo e negli anni Cinquanta, è impossibile per un semplice dato anagrafico. E il tutto è pur sempre offuscato da un eccessivo coinvolgimento emotivo, dettato da ragioni familiari, ideologiche, politiche e psicologiche. C’è il rischio di andare fuori strada lasciando la mano ad una sorta di tensione morale che ti fa guardare indietro per il solo piacere del ricordo. E con la “convinzione” di aver vissuto ed accumulato esperienze straordinarie, avvenimenti ed idee che vanno, invece, oltre la propria storia personale.

E così - per chi ha assistito dalla finestra dell’infanzia all’evolversi delle vicende locali - il vissuto fermano resta per lo più quello dei racconti, delle testimonianze segnate da profonde connotazioni emotive. Ecco, quindi, che la vicenda della Fermo-fascista appare sempre più lontana, come una sorta di cometa che, di volta in volta, illumina debolmente la scena. E i ricordi, insisto, sono quelli di ordine familiare. Tutti importanti, veri, da non dimenticare. Ma non c’è in tutto questo il senso immediato della cronaca e del ricordo vissuto in prima persona.

Qualcosa, comunque, si può tentare nel campo della ricostruzione degli eventi che tornano alla memoria di chi non si sente - per ragioni anagrafiche, ripeto - partecipe degli eventi. E allora ecco cosa si può ricordare di quegli anni fermani, vissuti con i calzoni corti, sotto le ripe del Monterone. Anni, ovviamente, già segnati dalla transizione e con fascisti che (lo scoprirò più avanti negli anni) stavano già abbassando la cresta. E così rivedo quel gruppo di camicie nere che, un bel giorno del ’44,  scesero dalla strada del Monterone per apprestarsi a buttar giù  la porta gialla, scardinata dal tempo, di quella stalla dove Desideri teneva alcuni cavalli... Era una azione di forza e di intimidazione alla quale assistetti attonito per alcuni minuti e poi, impaurito, mi rintanai in casa.

E in casa, successivamente, altre indirette lezioni di storia. Con i miei che nascondevano  in soffitta un amico di Urbino, l’ebreo Cohen, che si rifugiava per sfuggire alle ricerche tedesche. E poi in cantina sempre i miei nascosero un maestro dell’entroterra fermano che, noto come fascista, cercava di sottrarsi alla cattura degli antifascisti... Episodi opposti, è vero, ma per quegli anni e per la mia età erano già sufficienti ad essere letti come pagine di storie avventurose...

Ma su tutto dominò poi il fatto che seguii in diretta dalla finestra, abbracciato a mio fratello. Negli orti di via delle Mura - sotto casa - c’era una grande fattoria, quella dei Rossi, i “Rosci” come li chiamavamo tutti noi. A capo c’era il mitico Checco, duro con noi ragazzini. Ebbene, un bel giorno - si era già, evidentemente, alla fuga dei tedeschi dall’Italia - al cancello dei “Rosci” si presentano due soldati tedeschi armati. Raggiungono la stalla e tirano fuori un somaro che era per Checco il motore dell’intera azienda. Cominciano a spingerlo verso la via delle Mura, quando Checco si accorge. Prende un forcone e con un gesto da grande condottiero si lancia per inforcare i due pur temuti tedeschi, armati. Sarà stato un caso, sarà stato un miracolo, sarà stata la paura che già aleggiava nelle file nemiche, ma i due mollarono il somaro e si misero a fuggire...

Ricordo l’episodio in tutti i suoi particolari. E per anni, con mio fratello, ridemmo su quella vicenda...

Passano i tempi, e la mia  curiosità documentaria apre il campo ad altri importanti e significativi segmenti. Si apre qui quello che considero il “capitolo” più importante della storia fermana del dopoguerra e degli anni ’50. E precisamente il ruolo della “Tipografia” nota come “quella dei Bonassi”. Un luogo mitico. Dove tra il lavoro dei torchi e della composizione a mano si respirava aria di antifascismo, di democrazia e di socialismo. In pratica era la tipografia la vera sezione socialcomunista. E i Bonassi, appunto, erano al centro di tutta questa serena e pacifica attività di lavoro e di impegno politico. Prima fra tutti Delia, rossa di capelli e di cuore, carica di una intelligenza operaia indescrivibile. Mio fratello - che in quegli anni già masticava molto di politica e di ideologia socialista - l’aveva in grandissima simpatia. Un affetto, direi, ricambiato. E quando Gianfilippo portò a termine la sua tesi di laurea - “Diritto e morale nella filosofia di Bergson” - la consegnò  a Delia per farla rilegare in maniera decente. Fu quella una sorta di “cerimonia” e per Delia, sicuramente, un piacere. Da quel momento - si era negli anni cinquanta - il rapporto con Delia è passato attraverso la redazione dei manifesti socialisti, la stampa dei volantini,  degli opuscoli di propaganda... Sino al momento in cui Delia venne attaccata e denunciata da quelli che allora si chiamavano “Comitati civici” e che erano una riedizione in chiave cattolica delle idee fasciste. Gianfilippo fu a fianco di Delia per difenderla in tribunale e per bloccare anche le sue giuste intemperanze. La Rossa Bonassi entrava così a buon diritto tra le carte dell’avvocato compagno. E da quei momenti l’intesa fu sempre più forte, sottolineata anche dalla presenza di Lucio Matacotta, marito di Delia, figura esemplare di comunista fermano dell’intero arco degli anni ’50 e ’60.

Ma c’è ancora una pagina che riguarda Delia, la Rossa. Ed è quando nell’ottobre ’56 esplode la questione ungherese. A Fermo presidi ed insegnanti invitano gli studenti a scendere in strada e a manifestare contro i comunisti. Cosa che avviene puntualmente con i giovani che, guidati da uno studente dell’Industriale - Lussetich, un dalmata ospite del convitto “Sacconi” - si avviano verso la sezione comunista. In quel momento io - lontano da quegli avvenimenti e dedito più all’Azione Cattolica di Nereide e don Luigi -  corsi da Delia per avvertirla di quanto stava per accadere. E fu appunto lei che alla testa dei suoi compagni tipografi corse a difendere la sezione comunista... Un gesto spontaneo. Che aveva, comunque, alle spalle quel titolo dell’Unità ingraiana: “Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine al caos e all’anarchia”. Delia e i suoi compagni non avevano fatto in tempo a leggere il giornale. Non erano, come si dice, “orientati”. Avevano agito con grande spontaneità interpretando, a modo loro, quella che Togliatti definiva, in quelle ore, la “solidarietà” tra i popoli.

Ecco, a tanti anni di distanza, un cronista fermano può dire e ricordare solo queste cose. E tutto mi porta a dire che il ricordo può comprendere anche un'elaborazione di quanto è stato acquisito. E che, per estensione, è un segno che rimane come conseguenza di avvenimenti passati ma che sembrano avvenuti ieri. E questi fatti portano anche la firma della rossa Delia. Una fermana di tutto rispetto. Ecco, quindi, che la storia reale si ferma. Ora si può passare dal coinvolgimento dei sentimenti alla rievocazione dei documenti. Ma questa - come si dice - sarà un’altra storia”.

 

Marzo 2010

 

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