Memento

 

di Massimo Raffaeli

 

 

 

 

Ci ha insegnato Primo Levi a diffidare dei culti celebrativi della memoria, i quali troppo spesso dissimulano una pratica dell’oblio; nello stesso tempo, Levi invitava a distinguere con nettezza tra memoria e ricordo, sospettando la prima e schierandosi dalla parte del secondo. Per lui, la memoria era un flusso troppo rettilineo per non comportare anche sollievo o, talvolta, alibi ed autoassoluzione: di contro alla totalità fittizia della memoria (che nel caso proverbiale di Proust, per esempio, coincide con l’invenzione) Levi non ha infatti mai smesso di interrogare la parzialità del ricordo, percependolo vero e rimordente proprio nella sua natura frammentaria, opaca, irrelata. Perché è solo il ricordo a tornare imprevisto dal suo buio fondale quasi fosse una meteorite, cioè ad imporre, si direbbe per costrizione psicofisica, la propria verità. Ad ora incerta, amava aggiungere, dunque indipendentemente dal fatto che si voglia o possa rimuoverlo, opporvisi, negarlo.

Strutturata nella forma circolare e nella postura frontale di un oratorio, la scrittura di Luana Trapè restituisce corpo e voce ad un fatto peraltro incancellabile, avvenuto nel Fermano nel mese di giugno del ’44, al tempo delle più disumane rappresaglie nazifasciste. Qui, nel testo, chi di volta in volta prende la parola uscendo verso il pubblico dal cono d’ombra o emancipandosi dall’anonima presenza del coro, si sorprende a rammentare, e di nuovo a patire con ossessione, un suo grumo davvero mai smaltito, qualcosa di crudo e tuttora lancinante. Sono parole di singoli individui ma simultaneamente, questa, è la voce di una comunità. E solo il ricordo può concederle parole essenziali, espressioni paradossalmente vive nel contesto in cui tornano invece, da veri e propri spettri, l’ indigenza, il terrore, la morte, la strage, il lutto. Ora per allora, e viceversa.

Costoro parlano al presente, mostrando con austera dignità corpo e volto di testimoni attuali e pertanto di sopravvissuti: è l’occhio di Mario Dondero, la cui sequenza fotografica si accampa nella seconda parte del volume, a sorprenderli nei luoghi dell’antica strage. La maestà della natura, il profilo dolcissimo delle colline, un sole dilagante, la bellezza persino smaltata e da idillio, tutto ciò contrasta duramente (così attivando la dialettica del ricordo) con la sinistra nerezza di un bosco, di una lapide campestre, della foto di un bambino caduta sulle rughe screpolate del terreno dove avvennero i fatti. Non sono affatto illustrazioni e non necessitano di didascalie: sono semplicemente i gesti postdatati e non meno necessari della pietas rerum, cioè parole e immagini nudamente umane, “civili” nel senso etimologico. A proposito di Levi e dei culti della memoria, scrisse una volta Cesare Cases: “Il ricordo è necessario e doveroso solo nella prospettiva di un mondo in cui esso divenga utile”. È una frase che andrebbe tutta meditata, accingendosi al libro che Luana Trapè e Mario Dondero hanno saputo costruire.

Massimo Raffaeli

settembre 2007

 

 

 

 

 

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