Mario Dondero  Giorni Afgani. Il dolore e il coraggio

 

Il marchio del reale

 

Esistono immagini che subdolamente ci rendono succubi di un qualsiasi potere, ci spingono a pensare tutti allo stesso modo in funzione di interessi che non sono i nostri; in particolare, le immagini mediatiche di guerra, di feriti, di violenze e di sangue, si affollano, si sostituiscono velocemente azzerandosi a vicenda, addormentano la coscienza, ipnotizzano, generano indifferenza a ciò che accade altrove, mentre noi siamo qui, tranquilli e al sicuro.

Ci sono invece immagini - come quelle di Dondero - che ci rendono più liberi, aumentano la nostra capacità di pensare, sviluppano la nostra coscienza, curano gli effetti dell’eccesso di immagini, generando attenzione e un sentire più umano. Esse costruiscono una durata: qui c’è una lentezza, uno stare, un esistere originato dall’empatia, da uno sguardo aperto che costruisce un rapporto con altri esseri umani. “Nella fotografia è importante il discorso interiore, condividere esperienze, raccontare storie". Sembra singolare (ma non lo è troppo) che a Fermo, dove Luigi Crocenzi ha inventato il Racconto per immagini, sia poi approdato Dondero che non l’ha mai conosciuto, e presenta qui un vero e proprio racconto per immagini sull’Afghanistan.

Non è azzardato affermare che Dondero sia andato a fotografare per Emergency in Afghanistan perché da ragazzo ha fatto il partigiano: fedele a quegli ideali di uguaglianza e giustizia, sempre all’azione nei luoghi dove esse sono calpestate, per scattare “tessere di testimonianza”. Infatti non appartiene alla schiera di coloro che stanno appostati sul ciglio del tempo, perché è un artista che vive con il tempo, cioè è un contemporaneo capace di far vedere qualcosa e insieme di trasmettere una configurazione del mondo, una percezione di sé dell’uomo moderno, soprattutto quando si trova a incontrare altri mondi. Si è scritto che la fotografia evoca assenza, nostalgia, commemorazione, malinconia, immobilità. Niente di tutto questo nelle opere di Dondero, dove le persone sono viventi.

L’arte di oggi è tutta tesa spasmodicamente e avidamente alla ricerca di una fantomatica realtà. Dondero invece la incontra con immediatezza: i suoi scatti possiedono tutti il marchio del reale. Benché rifugga dalla ricerca artificiosa della bellezza, questa appare in tutte le sue immagini, grazie alla sapiente esperienza che gli permette di fissare nell’attimo il senso di una vita, raccontando la “sostanza della realtà, che è verità”. Verità e bellezza. Così un uomo che si definisce “giornalista e fotoreporter”, regala con nonchalance al mondo schegge di classicità.

Le guerre moderne vengono presentate come scontri di civiltà, contro nemici barbari e inferiori a cui imporre i nostri “giusti” valori; queste fotografie mostrano invece con evidenza che coloro che non appartengono al nostro mondo sono nostri simili; simili le nascite, lo sguardo di una madre, i bambini, le infermità, le difficoltà del vivere, il dolore, le ferite. Ma poiché non possono fare a meno di evocare attraverso lo sguardo (se non altro per assenza) i più alti principi di giustizia e verità, ci ricordano crudamente che quel dolore e quelle ferite siamo stati noi a provocarli. Senza alcuna enfasi Dondero mostra i disastri del progresso, la schizofrenia dell’Occidente, sfruttando appieno la capacità delle immagini di rendere visibile ciò che la storia genera al di là di se stessa. Non indugia però sull’urlo di dolore, sui corpi martoriati, ai quali allude mostrandoli di lato, con pudore, discrezione, e rispetto per la sensibilità delle persone; preferisce appuntare lo sguardo sulle attenzioni, la sollecitudine, l’umanità, la professionalità e la prontezza degli interventi di cura.

Anche se la sua vita e il lavoro sono stati sempre fondati su una forte ideologia, lo sguardo di queste fotografie non è uno sguardo ideologico. Il messaggio non viene prima né sopravanza o domina la forma. Dondero non ti getta addosso un carico di significati, non c’è giudizio, né pregiudizio: il pathos fa appello all’etica, cioè alla possibilità di azione. Le sue foto, una volta che abbiamo preso coscienza dell’enorme capacità degli esseri umani di commettere il male (ma anche il bene) ci pongono delle domande: che cosa dobbiamo fare quando il male non riguarda noi? Quando il dolore sofferto è quello degli altri e, soprattutto, quando è inferto da noi? E, molto semplicemente, illuminano qualche via da intraprendere.

 

 

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