Luana Trapè

Joyce Lussu, L’olivastro e l’innesto.

Storia di un’isola ritrovata

 

 Nuova Prosa, Milano, 2002

 

 

 

Saggista, polemista, storica, poetessa, narratrice, traduttrice atipica, Joyce Salvadori Lussu è forse poco nota al pubblico, dal momento che negli ultimi anni della sua vita non si curò affatto di pubblicare libri con grandi case Editrici per rinnovare la notorietà che aveva raggiunto negli anni Settanta, quando rappresentò un’indiscussa protagonista del ‘pensiero alternativo’ con “L’acqua del Duemila”, “Padre Padrone Padreterno”, “L’uomo che volle nascere donna”. Non al successo, infatti, si interessava, ma appassionatamente al succedere/ e al succederà.

La trama della sua scrittura è indissolubilmente intrecciata con il passo della vita errabonda tra quei Paesi in cui le pareva che il presente stesse per tramutarsi in un futuro nuovo e più giusto; mi piaceva scrivere e fare politica ... Forse, come Sinbad il marinaio, cercavo le avventure solo per poterle raccontare”. Alla sua “esistenza scritta” si potrebbe a ragione applicare l’idea di Magris che la letteratura sia di per se stessa una frontiera ed una spedizione alla ricerca di nuove frontiere, un loro spostamento e una loro definizione... un continuo smontaggio e rimontaggio del mondo, delle sue cornici e delle sue immagini. E se “Portrait” e “Tradurre poesia” si muovono lungo frontiere lontane nell’intento di tracciare un arco più vasto di terra veramente appresa, “L’olivastro e l’innesto” è una spedizione per dislocare i confini più vicini, sia quelli geografici che l’acqua segna tra la Sardegna e la penisola, sia quelli culturali: tra la sua formazione eurocentrica e sottilmente colonialista di giovane ateniese disposta a considerare barbari tutti i diversi e il sapere del marito Emilio Lussu, che aveva nella sua vita percorso consapevolmente un così lungo arco di storia, da quella patriarcale alle avanguardie delle lotte di oggi, la ricchezza della sua esperienza vissuta e non letta soltanto. Alla sua cultura fatta soltanto di libri era apparso favoloso il racconto di Emilio sulla propria terra, una canzone di gesta, affascinata e lontana... Io vedevo colorarsi l’arazzo che veniva tessendo, con le sue figure quasi araldiche.

Ma ben diversa si manifesta l’isola, quando ella vi approda per la prima volta nel 1944 e la percepisce fulmineamente con la sua capacità sintetica di cogliere tutti insieme, nella loro essenza e interdipendenza, realtà, esseri e cose, storia e natura: umiliata e immiserita dal fascismo e dalla guerra... con i suoi villaggi e i suoi sentieri di pietra, il suo lentischio e i suoi asfodeli, le sue speranze e il suo lamento. La volontà di non essere viaggiatrice momentanea è palese già nel titolo, metafora di sé quale innesto che deve crescere e diventare ramo sull’olivastro, pianta selvaggia simbolo ad un tempo di Emilio e della sua terra; né vuole ritrarre della Sardegna gli aspetti folcloristici, i costumi splendidi delle tue donne diritte e aduste/ non l’orbace che cinge i petti larghi dei tuoi pastori, come scrive in una poesia poi ripubblicata in “Inventario delle cose certe”, bensì l’immagine della vita nella tua fatica/ difficile.

Il primo racconto (scritto per ultimo ma anteposto agli altri come presentazione) compone la registrazione delle prime impressioni davanti ad un nuovo mondo con la sintesi finale di tutte le esperienze fatte, e contiene una precisa dichiarazione di poetica che mostra più d’un apparentamento con quella verghiana: prima di tutto nel rifiuto di una letteratura ‘pura’ o d’invenzione (leit motiv della sua intera produzione), per una scrittura che aggredisce i fatti storici: la sua è una passione della moralità, o piuttosto della vita. La verità è sempre meglio dirla tutta ... Non so cosa valgano questi racconti, ma certo, quando li ho scritti, non mi preoccupavo che fossero ‘belli’; in secondo luogo, nel ripudio di quel populismo progressista che si traduce nel linguaggio raziocinante e speranzoso dei sindacati e dei partiti, l’ottimismo semplificatorio del sole dell’avvenire; e infine nella rappresentazione privilegiata dei ceti più bassi e miseri, quella parte di umanità dimenticata - in Sardegna come nel mondo intero- composta da donne senza mezzi di sussistenza, vecchi abbandonati, bambini morti anzitempo per fame e mancanza di medicine.

Il punto di vista del narrare è una dimensione etica che non conosce deroghe: la sua straordinaria facoltà di attenzione e comprensione si rivolge delicata e potente al reale, nella certezza che la vita è ascoltare e vedere, comprendere e sapere una storia intera, ricostruita non soltanto leggendo i testi scritti ma soprattutto ascoltando le voci di un territorio e delle persone che ci vivono: una prassi già usata nella “Storia del Fermano”, che divulgò nelle Marche il metodo degli Annales fondati da Braudel, ancora pressoché sconosciuto. Ella si affida perciò all’esperienza diretta, facendo intensa attività politica, il che mi portava a girare di paese in paese e a indagare in ogni comunità sulla realtà socioeconomica, produttiva e culturale, sulla condizione della donna e dei bambini.

La descrizione della Sardegna è subito punteggiata da una nominazione mai generica di elementi naturali, oggetti e materiali, che è il frutto di una passione del vedere e del guardare: le macchie di elci... la seggiolina di legno di oleandro nella casa di Armungia... i travi di ginepro non sgrossato ... la grande cassapanca di rovere scolpito e annerito col sangue di capra... il materasso di rami di lentischio ammucchiati a spina di pesce. E, ugualmente, non è soltanto un gusto del catalogare, ma un potente affresco e insieme un compianto delle specie che un tempo popolarono l’isola, l’elenco degli animali uccisi dagli antenati cacciatori accusati di genocidio di cervi e di mufloni, di assassinio dei grandi volatili e delle foche dolci mediterranee, di strage di lepri e di uccelli innocenti.

Durante il viaggio solitario a cavallo attraverso l’isola, le viene incontro un ambiente grande, irsuto, forse bellissimo, ma ostile e indifferente all’ uomo implume e vulnerabile, tanto da metterne in forse la stessa esistenza; si ferma nei villaggi più isolati e desolati, (com’è espressiva questa rima che amplifica la crudeltà del vivere!) tra pastori e contadini che la ospitano nelle loro case, offrendo letto, cibo e racconti di episodi di guerra e di lotte civili, come canti di un’epopea che non aveva né principio né fine, in una lingua che è fatta di tante lingue, gli aspri dialetti della montagna e quelli spagnoleggianti della pianura, nei quali riconosce le radici dello stile di Emilio, incisivo e robusto. Ma non è usuale, nella Sardegna degli Anni Quaranta, che una donna giri da sola e perciò un giorno una pattuglia dei carabinieri, trovatala senza documenti, la scambia per un bandito e non credendo alle sue proteste di essere la moglie dell’onorevole Lussu la porta in paese, tra i notabili, signori solenni, vestiti di nero e con cappello duro da proprietari terrieri, che fissarono con accigliata disapprovazione i miei capelli al vento e i miei pantaloni sui fianchi schiumanti del cavallo.... Le donne non c’erano, erano tutte in cucina.

Nel suo errare trova una conferma alla teoria, cavallo di battaglia di tante sue opere (“Il Libro delle streghe”, “Il Libro Perogno”, “Le Comunanze picene”) che sia esistita in passato una cultura che aveva attribuito alla donna una posizione autorevole e prestigiosa. Incontra donne che, pur vissute in totale isolamento da ogni cultura e prive di strumenti moderni, avevano maturità, saggezza e un forte senso di identità ... una robusta dignità personale e una laicità che escludeva l’assuefazione al servilismo. E poiché il suo conoscere non è mai disgiunto dal fare, ecco l’organizzazione di congressi delle donne sarde, particolarmente pronte ad apprendere le conquiste e i diritti che le loro sorelle stanno conquistando nel ‘continente’. Per discutere con loro non ci si può servire dei termini di gergo a cui si erano assuefatte le compagne del movimento femminile ... parole logorate da una continua ripetizione; mentre è facile, per la Lussu, parlare nella stessa lingua che usa scrivendo (in cui il messaggio è esplicito, palese il senso) perché anche per loro è la vita ciò che conta, il discrimine attraverso cui la donna ragiona e crea.

La narrazione vera e propria inizia dal secondo racconto e da questo momento in poi l’io della scrittrice si ritrae per riaffacciarsi direttamente soltanto in Beniamino, ma si può dire, prendendo a prestito le parole di De Benedetti, che non è l’autore che scompare come prima persona, diretta o indiretta, per lasciar parlare i fatti, a cui presta la sua voce e la sua penna... Qui l’autore scompare perché immedesimato col suo mondo, tanto che non lo distinguiamo più ... Si potrebbe altrettanto bene sostenere che quel mondo parla per bocca dell’autore, o che l’autore parla per bocca di quel mondo.

Prima protagonista è zia Maddalena che, immobilizzata da una caduta, deve affidarsi all’assistenza dei vicini, poiché vive da sola e non ha mezzi. Accanto al suo letto sfila il corteo della brava gente, che offre minestre e pane ma si porta via ogni giorno qualcosa, coperte e lenzuola del corredo della figlia morta, legna, sedie, cosicché l’inferma decide di farsi trasportare il letto in cucina per sorvegliare l’uscita, ma ugualmente quelli mettono la roba sul davanzale della finestra e poi la prendono da fuori finché la casa rimane del tutto spoglia. Già al primo giorno qualcuno le aveva rubato le galline su cui contava molto e zia Maddalena pianse e poi si rassegnò, come generalmente fanno tutti, commenta la scrittrice con il suo consueto senso pratico, comparendo discretamente tra le righe. Ma ciò che turba di più l’ammalata è il furto di Piriccu, un bambino di dodici anni che vive di carità, il quale alle sue appassionate rimostranze risponde: Tutti rubano ... e il più povero sono io.

Quella che a tutta prima appariva crudele insensibilità si rivela allora dura legge di sopravvivenza in un mondo di ‘vinti’, dove il matrimonio e il possesso almeno dei beni primari sembrano le uniche molle del meccanismo sociale e gli atti di generosità gratuita sono rarissimi; ed è alla nostra pietas che vengono affidati Antonio e Giovanna, fidanzati da cinque anni che, in piedi accanto al focolare, guardano il letto di Maddalena campeggiare nella cucina vuota e pensano, senza dirselo, a quello che avrebbero potuto fare per avere quel letto, per mettere zia Maddalena in qualche altra parte e portarselo via, ma naturalmente non era possibile, pure sarebbe stato bello avere quel letto, sposarsi e avere quel letto.

Un’ascendenza verghiana, dunque, ma temperata e mutata di senso da uno sguardo ‘femminile’ che riconosce ad uomini, piante ed animali uguale dignità e diritto all’esistenza e all’affetto; questa premura permette di cogliere la trepidazione nel desiderio celato di zia Maddalena: dare un po’ di minestra al suo gatto, che la guardava con fiducia ed aspettazione, ma lei aveva paura che l’avrebbero criticata ... quando non c’era nessuno lo chiamava con dolcezza e gli dava dei pezzetti di pane che si era nascosti dentro al letto per non farsi vedere da Sebastiano il quale aveva detto che le bestie sono bestie, e bisogna dar da mangiare piuttosto ai bambini. Un giorno infatti lo prese per le gambe di dietro e gli spaccò la testa su una pietra. E zia Maddalena continuava a nascondere i pezzetti di pane sotto le coltri nella speranza che tornasse.

Il pianeta donna è un argomento privilegiato della Lussu, che ha sempre lottato per la sua emancipazione senza sottovalutarne né enfatizzarne il ruolo, non condividendo soprattutto l'incapacità del femminismo più intransigente di individuare all'interno del mondo femminile la divisione in classi e quindi l'inconciliabilità degli interessi.

Perché, come in ogni luogo, anche in Sardegna esistono mondi femminili completamente separati e nemici: donne ricche di terre e di potere e donne del popolo, ma anche fra queste ci sono quelle più fiere e indipendenti delle comunità pastorali e ancora più in basso le contadine della pianura, le mogli dei braccianti e minatori, sfruttate e sottomesse, le bambine serve come Susanna, il cui orizzonte è talmente privo di riscatto che la scrittrice inventa per lei una favola per farla fuggire lontano, portata da folletti gentili e variopinti. Nella realtà invece la servetta è sempre stanca, sempre indaffarata a badare a due bambini, in fondo è anche lei una bambina, non ha che undici anni; invece deve ancora servire a tavola, e poi lavare i piatti, e ha sempre una gran paura che un piatto o un bicchiere le scivoli dalle mani intorpidite e si rompa, e la Signora si precipiti e gridi che lo ricomprerà col suo stipendio. Lo stipendio è di mille lire, e la Signora dice che non le spetterebbe nemmeno quello, perché è venuta in città per imparare le faccende di casa e a vivere civilmente, e lei deve fare molta fatica per insegnarle queste cose. La Signora ha una voce acuta e uno sguardo che arriva dappertutto.

Ma neppure le Signore sono tutte uguali: la baronessa donna Ignazia ad esempio (alter ego della Lussu, nata contessa, ma votata fin da giovane alla trasgressione dei codici comportamentali), costretta a ritirarsi in un piccolo paese dopo la morte del marito che ha dilapidato quasi l’intero patrimonio, scopre la miseria della scuola che dovrebbe frequentare sua figlia, una sottospecie di stalla, in un vicolo intitolato a Fabio Massimo Temporeggiatore, ma significativamente ridenominato ‘Vicolo Porcile’ dalla concreta saggezza popolare. Donna colta ed efficiente, Ignazia scopre in sé una vocazione alla protesta civile, incalza e tempesta le autorità per conoscere le ragioni di tale ingiustizia e soprattutto i sistemi per cancellarla; si rivolge al Sindaco e poi al cugino onorevole, e quello al sentirla parlare di diritti ironizza sulla sua bella testolina... che comincia ad interessarsi di politica e la deride: Mi pare che occhieggi anche tu verso il sole dell’avvenire. Sei sempre stata molto snob e questa è, per certi, la forma più recente di snobismo salottiero. Quando credevi che tuo marito fosse ricco, solo sentir parlare di comunisti ti faceva rizzare i capelli. Ma Ignazia, pur penosamente consapevole della gonna stinta, degli scarponi polverosi, dei capelli che nessuno ondulava da mesi, sa che il mondo dorato dei salotti è per lei definitivamente perduto: ora vuole soltanto una scuola nuova per tutti.

Nella Matriarca la Lussu scava in un chiuso mondo di donne somigliante alla “Casa di Bernanda Alda” di Garcia Lorca: una madre vedova ha assunto tutte le insegne del potere maschile; suo arcigno cane da guardia la serva, tratteggiata con grande efficacia, immobile, muta, alta e dritta come un pilastro, mutata in pietra come il cuore della sua padrona. Tra le figlie sottomesse e rassegnate, la vittima privilegiata è quella più affettuosa, Marietta, la quale ha rinunciato a sposarsi pur di rimanerle accanto, le stava sempre attorno con un sorriso e cercava di rallegrarla, e non si mostrava mai amareggiata quando donna Raimonda aveva i suoi scatti, anzi veniva a carezzarle i capelli ... e le teneva la mano come quando era piccola... e le pettinava i capelli come a una regina. Un giorno uscendo dalla chiesa Marietta, pur se grigia e dimessa e sfiorita, riceve una dichiarazione d’amore ma guardando la serva, che sempre la accompagna per controllare i suoi passi, sente tutta la sua gioia ricaderle in fondo al cuore, come una pietra pesante in un pozzo profondo... e una gran nebbia di colpevolezza intorno alla mente, per aver osato appena sognare una sorte diversa da quella che la incatena alla madre. Tuttavia avrà il coraggio di parlarle, soltanto però per ricevere un reciso rifiuto; allora una notte si veste del suo abito migliore, come se si fosse preparata per andare dall’innamorato. Ma non andava dall’innamorato, lo sapeva bene la serva. E si mise a calcolare il tempo che le sarebbe occorso per arrivare al fiume, e poi per la gente a venir su a portare la notizia, sentendo una gran pena per donna Raimonda a cui è necessario nascondere la verità poiché non era giusto che una donna così pia dovesse soffrire, pensando che la carne della sua carne aveva ospitato un’anima dannata. Come in Garcia Lorca, pregiudizi arcaici e un’inflessibile morale cattolica usati per mascherare un egoismo feroce, conducono velocemente la protagonista verso il suicidio.

Anche Il passo del cavallo verde mette in scena l’antica e vana lotta delle passioni contro il destino, cantata con scarna efficacia dal coro popolare: Ancora oggi, nelle sere d’inverno dopo le giornate brevi, gli uomini e le donne raccontano dell’amore di Gesuina e di Daniele, della ragazza zoppa che corse giù nella notte e uccise il fratello prima che giungesse al Passo del cavallo verde per assassinare l’amante e vendicare l’onore della famiglia, del mirabile filtro che zia Potenza seppe preparare e dette a bere lei stessa, secondo il desiderio della vedova, a Gesuina che aveva ucciso, e non voleva espiare convenientemente il suo delitto. Il paese sa tutto, anche se nulla ha raccontato ai carabinieri.

L’ottimismo ‘scettico’, come lo definisce nel dialogo “Sulla civetteria”, permette alla Lussu, nella rinuncia ad ogni illusione, di analizzare oggettivamente la realtà (che, ne è certa, può sempre essere migliorata) cogliendone le zone d’ombra e constatando che - come il mondo delle donne - anche il campo della giustizia ha due facce: c’è la giustizia ‘giusta’ di zio Pìlimo il quale sistema con equanimità una questione tra una vedova avida e litigiosa e sempre poco rispettosa degli altri, che aveva addestrato il suo cagnolo a uccidere i porchetti e il loro padrone, il poverissimo Zio Eusebio, il porcaro.

Ma c’è anche la giustizia ‘borghese’ dello Stallone di Sisinnio Figus, la stessa che aveva condotto in galera gli ingenui rivoluzionari della novella verghiana La libertà e qui imprigiona gli occupanti delle terre incolte, accusati di aver aggredito il fattore, sbalzato invece a terra dal suo cavallo. E, come là il capo della giuria ... con la mano sulla pancia giura sull’onore e la coscienza, qui si parla della libertà, della civiltà, della legge che tutela queste cose e la Lussu, ascoltando la voce uniforme del Pubblico Ministero con gli orecchi delle donne che assistono al processo, la paragona al monotono ritmo della sega che taglia il tronco.

Persino il mondo dei bambini è duplice: da una parte ci sono quelli viziati che non si possono picchiare e ricattano l’infelice Marietta, bambina lei stessa; e dall’altra Beniamino che ha sempre sonno e, tutto impegnato a procurarsi da mangiare, è stato privato perfino del piacere di scoprire la bellezza della natura. Anche le piante, Beniamino le considera dal punto di vista pratico. I fiori non servono a nulla. E nemmeno le stelle, che non guarda mai e non conosce. Anche quando passa lunghe ore notturne guidando i buoi o seduto accanto a una roccia, a pascolare le bestie, tiene lo sguardo fisso a terra o davanti a sé. Le stelle, non le guarda mai. Ci sono poi i bambini di Villasolis che, solo a guardarli, farebbero esclamare: Come sono belli! ... Ma se poi si andava a parlare col dottore o a esaminare in Comune l’elenco delle nascite e delle morti, si scopriva che su dieci bambini nati a Villasolis, due morivano prima di raggiungere il primo anno di età, e uno o due prima di raggiungere il quinto; per cause varie, ma soprattutto enteriti, polmoniti e tubercolosi, e qualcuno per estrema denutrizione, cioè per fame, nel qual caso il dottore scriveva sul certificato, per pudore patriottico, ‘morto di malaria’.

La narrazione potrebbe correre il rischio di scadere nell’indagine sociologica o nel pedagogismo, se a dare efficacia al discorso non fosse il corto circuito tra il gelido resoconto demografico e il ritratto affettuoso dei bambini rimasti vivi, quelli piccoli, ancora incerti sulle gambe grassocce, bambini più grandetti, coi pantaloncini mezzo lunghi e rattoppati, ragazzini già col bastoncello da pastore e ragazzine già con la brocca d’acqua in testa, tutti coi capelli arruffati e stracciati e scalzi, bruciati dal sole e con immensi occhi neri, e diritti e asciutti e guizzanti come lucertole, e il compianto tenero per quelli morti che, deboli, dal viso più morbido e infantile e stupito dei mali del mondo, erano nel cimitero e si fondevano presto con la terra che poi si rivoltava ancora per una tomba nuova.

Un’identica pietas nutre la testimonianza, pur asciutta e distaccata, della morte dei vecchi poveri, a cui la Lussu (certa com’è che per tessere la storia intera di un popolo sia necessario ascoltare l’eco dei tempi remoti, nei quali affonda le radici il quotidiano presente) premette il ricordo dell’antichissima leggenda delle acabadoras, donne rispettabili e sacerdotesse di un rito tradizionale, le quali, somministrata una pozione misteriosa ai vecchi infermi e ormai inadatti a qualsiasi lavoro lo finivano con un colpo. E, commenta ironicamente la scrittrice, il turista ingenuo che ha tramandato questa testimonianza cento anni prima si compiace del suo tempo ben più civile e progredito, in cui i vecchi, nei villaggi... morivano naturalmente, di stenti, di malattie, di sporcizia e denutrizione.

Nulla è cambiato nella Sardegna degli Anni Quaranta: zio Peppino Piras non disponeva nemmeno della sua misera pensione d’invalido di guerra; la riscuoteva il figlio, che non gli dava neanche un centesimo, neanche le dieci lire per il mezzo sigaro che avrebbe desiderato tanto fumarsi la domenica pomeriggio. Non c’è disaffezione nel figlio, né egoismo, né ottundimento dei valori morali: solo la constatazione desolata che alla morte del padre i suoi sei bambini e la moglie malata avranno qualcosa in più da mangiare. E nondimeno, quando compose il cadavere, scoppiò a un tratto in un pianto dirotto, pensando, di fronte a quel mucchio d’ossa, a suo padre giovane e forte, alle sue grandi e forti mani ch’eran sembrate a lui bambino meravigliose e invincibili.

Zia Raffaela è impazzita dopo la morte di due dei suoi figli nella guerra d’Albania e un giorno ha persino fatto scandalo in chiesa, quando il parroco aveva predicato la santa crociata delle camicie nere contro la Russia; si era strappata il fazzoletto nero dalla testa e agitando le braccia incompostamente aveva gridato: ‘Non andate! Non andate! Vogliono ammazzare tutti i figli dei poveri!’ Le autorità la proposero subito per il confino ma poi ebbero pietà della sua follia e la lasciarono restare, tuttavia in seguito cominciarono a bollare come sospetto di antifascismo chiunque andasse a trovarla e perciò tutti la abbandonarono, meno una vecchia che le comperava il pane e la legna per il focolare. Il giorno che morì zia Raffaela non c’era andata perché era freddo e pioveva a dirotto, e ne ebbe poi rimorso: forse la poveretta era morta davanti al focolare spento, proprio perché nessuno era venuto ad accenderle il fuoco.

Il libro sembrerebbe un resoconto della fatica di vivere se non fosse che la Lussu non dimentica mai di scovare il piacere dell’esistere anche nelle minute cose, in primo luogo il gusto dei cibi, che consiste nel preparare, guardare, annusare e comporre in bell’elenco, prima di assaporarli. Il pane si faceva in casa ... e le vicine venivano ad aiutare, si sedevano in circolo per setacciare la farina, impastare la massa, mettere a cuocere le pagnotte nel forno riscaldato col fuoco delle fascine, e poi tirarle fuori con la lunga pala, tagliarle in due, lavorare la mollica con la punta di un coltello per farne pistocco, biscotto duro e dorato, che durava a lungo e si mangiava ammollato nell’acqua.

Persino nei sogni dei poveri tutti i sensi si mettono in moto e i cibi si fanno incantevoli e ricchi di colori. Ci sono pasti variegati di tutte le sfumature del rosso: Come sarebbe stato bello sgozzare il maiale ... e preparare le salsicce dolci di sangue e sapa, e arrostire allo spiedo il fegato fresco nella sua rete di grasso rosa. E mangiavano il pane solo per poter vendere qualche formaggio, e mettere da parte un po’ di soldi per comperare quel giorno almeno un bel pezzo di carne, e anche il semolino per fare i ravioli col ripieno di patate, e un sugo di pomodoro.

Altri tinti di verde: Indigestioni, Beniamino non ne ha potute mai fare. Il suo pasto abituale è il pane biscottato dei pastori, bagnato con l’acqua. E fichi e fichi d’India, quando è la stagione. Naturalmente, quando i pastori fanno la minestra di fave passate o di fave e lardo, ce n’è anche per lui.

Attraverso il cibo transitano, infine, sentimenti e ruoli sociali: sottomissione nutrita d’affetto, nella pietanza prelibata che Marietta serve alla madre dispotica; sicurezza e trionfo, in quella ciambella zuccherata che Ignazia aveva cotto una prima volta malvolentieri per i compagni della figlia, preoccupata e scontenta per quei piccoli straccioni che le invadevano la casa, e prepara invece con soddisfazione quando ha ottenuto la scuola nuova per tutti, ed accettato il suo nuovo ruolo di baronessa povera e rivoluzionaria.

 

 

Opere citate

De Benedetti, Verga e il verismo, Milano, 1976

Garcia Lorca, La casa di Bernarda Alba, Einaudi, 1997

Joyce Lussu, Il Libro Perogno, Il Lavoro editoriale, 1982

J. Lussu, Il Libro delle streghe, Il Lavoro editoriale, 1990

J. Lussu, Inventario delle cose certe, Poesie, Livi Editore, 1989

J. Lussu, L’acqua del Duemila, Mazzotta, 1977

J. Lussu, Le comunanze picene, Livi Editore, 1989

J.Lussu, L’olivastro e l’innesto, Edizioni della Torre,

Cagliari, 1982

J. Lussu, L’uomo che voleva nascere donna, Mazzotta, 1978

J. Lussu, Padre Padrone Padreterno, Mazzotta, 1976

J. Lussu, Portrait, Transeuropa, 1988

J. Lussu e altri, Storia del Fermano, Marsilio, 1971

J. Lussu/ Luana Trapè, Sulla civetteria, Voland 1998

Magris, Utopia e disincanto, Garzanti, 1999

Giovanni Verga, Tutte le novelle, Milano 1979

 

 

 

 

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