XXXVI Tornata Studio Firmano, Fermo , 2002

 

Giorgio Ripani, Luana Trapè

 

Dall’istituzione manicomiale alle strutture riabilitative

 

Premesse storiche

 

 

L’Ospedale Psichiatrico di Fermo nasce nel 1854, con i suoi primi ricoveri che risultano documentati dalle relative cartelle cliniche. Dei suoi primi cinquant’anni abbiamo memorie eccellenti per l’accurata precisione dei Sanitari dell’epoca (che ringraziamo) nelle descrizioni della sintomatologia che aveva determinato la necessità e l’urgenza del ricovero. Sorprendenti appaiono le documentazioni, spesso allegate alle cartelle, circa le dimissioni e i permessi ai familiari. Nella polvere di quelle carte trovano riscontro le storie dei pazienti, a volte ricche di connotazioni importanti per l’epoca, altre volte significative di un modo di concepire la Semeiotica, ancora oggi significativamente valido. Questo certamente dovrebbe essere uno stimolo per gli specialisti d’oggi che lavorano nei Servizi, giacché non sempre si ha uguale precisione o accuratezza clinica nel segnalare l’effettiva situazione sintomatologia di un paziente.

Da una lapide che ornava l’ingresso dell’Ospedale si viene a conoscenza dei nomi di tutti i Direttori che si sono succeduti alla guida dell’Istituzione; traccia di loro rimane anche nelle donazioni librarie che spesso gli eredi facevano alla Biblioteca dell’Ospedale. Alcuni di questi Direttori ci hanno lasciato degli scritti dai quali abbiamo potuto trarre notizie che sono state di riferimento per la nostra ricerca; particolarmente preziosa si è rivelata una relazione pubblicata nel 1916 dal dottor Romolo Righetti (1) che descrive l’Istituzione nei primi anni del secolo scorso.

Consegnato nel 1906 all’Amministrazione provinciale di Ascoli Piceno dalla locale Congregazione di carità, il manicomio di Fermo consisteva di due edifici: un corpo principale molto articolato, ex convento dei Frati Minori Osservanti del secolo XVI con annessa Chiesa dell’Annunziata, ospitava i servizi (uffici, ambulatori, stanze degli infermieri e delle suore) e le pazienti tranquille; nell’altro, costruito alla fine dell’Ottocento, si trovavano i tre reparti rigidamente separati degli uomini tranquilli e degli agitati d’ambo i sessi.

 Esponendo via via le riforme di cui si era fatto ispiratore, il dottor Righetti getta per contrasto una cruda luce sulla disumanità delle condizioni in cui versavano i ricoverati, disumanità che solo in parte fu possibile temperare a causa delle difficoltà burocratiche e finanziarie. Il primo problema da affrontare era l’inadeguatezza strutturale soprattutto dell’edificio più antico che, mutato di destinazione senza adeguati interventi, presentava i difetti più evidenti: la mancanza di indipendenza tra i reparti; la scarsezza di ambienti ampi e ben arieggiati; la presenza di ripostigli, anditi e bugigattoli; l’eccesso di stanze di isolamento, l’obbligo di convivenza di malati adolescenti con gli adulti.

Animato da intenti di modernizzazione e razionalizzazione, il Direttore riuscì ad apportare alcune modifiche sostanziali senza alterare eccessivamente l’aspetto complessivo: allo scopo di ridare luce ad un ambiente troppo simile ad un carcere alcuni muri interni vennero demoliti e sostituiti da vetrate, si riaprirono delle arcate, anguste camerette furono trasformate in ampi saloni di soggiorno. Quando, per motivi di sicurezza, non fu possibile eliminare le sbarre fisse delle finestre, si sostituirono con delle inferriate mobili contenute entro eleganti telai di legno, simulanti delle comuni invetriate (che ancora oggi si possono vedere sulla facciata principale). Fu introdotta la luce elettrica, si costruirono bagni per ogni reparto. Di primaria importanza fu l’allestimento di un reparto d’osservazione (con una sala per i tranquilli e una per gli irrequieti e clamorosi) dove potevano rimanere per qualche settimana i pazienti appena ammessi, che in passato venivano invece immediatamente internati nei reparti, senza essere stati preventivamente esaminati in vista della loro destinazione. Tra le principali cause del ricovero vengono indicati: alcolismo, epilessia, demenza precoce, psicosi maniaco depressiva, psicosi dell’età involutiva, arresti di sviluppo psicologico, paralisi progressiva, paranoia.

Negli anni 1909/1916 solo in circostanze speciali fu adottato l’isolamento, così come, almeno a quanto afferma il Direttore, si cercò di diminuire l’uso della contenzione meccanica, della quale prima del suo arrivo si abusava: per settimane di seguito i pazienti venivano legati di notte ai letti, di giorno alle panche. La limitazione delle restrizioni portò un aumento dei danni ai locali e alle suppellettili, probabilmente maggiori a Fermo che in altri ospedali, poiché qui porte, finestre e serrature erano vecchie e i vetri piuttosto sottili; e tuttavia si ritenne giustificabile un sacrificio economico in considerazione del sollievo recato a tanti malati, ridonando loro la libertà di muoversi, che prima veniva a loro contesa.

L’eccessivo affollamento (350 presenze per una capacità ricettiva di 288 “piazze”) era certo il problema più incalzante, cui il regolamento offriva delle soluzioni: infatti l’articolo 6 prevedeva che un certo numero di dementi cronici, tranquilli ed innocui possa essere affidato ad istituti pubblici (ospizi, ricoveri od asili), cosa che non si poté però realizzare per l’opposizione dei Comuni d’origine e delle Congregazioni di carità che non vollero farsi carico del loro mantenimento. Maggiore fortuna ebbe il tentativo di applicare l’articolo 66, con la dimissione di malati guariti o semplicemente migliorati e considerati non più pericolosi, nonostante il rifiuto di molte famiglie, sia per la diffidenza dovuta al ricordo incancellabile dei disordini commessi molti anni prima dall’ammalato, sia perché qualcuno si vedeva leso nei propri interessi per il ritorno insospettato o non desiderato, di congiunti che si consideravano per sempre internati nel manicomio e che in ogni caso erano diventati improduttivi. L’esperimento parve riuscito poiché non erano giunte notizie di violenze perpetrate dai pazienti usciti e pochi erano stati rinviati per aggravamento della malattia mentale. Ma il rapporto tra i dimessi e i nuovi ammessi si mantenne quasi costante negli anni analizzati, cosicché rimase pressante il secondo grande problema del manicomio: la carenza di personale. Soltanto due medici vigilavano sul complesso, il Direttore e il Vicedirettore, cosicché in caso di malattia o licenza di uno tutto il lavoro gravava sull’altro. Erano poi in servizio sedici infermieri per gli uomini, con un ispettore e tre capireparto; per le donne, sedici infermiere, una caporeparto laica, una suora ispettrice.

Ma secondo l’illuminata visione del dottor Righetti non soltanto di sorvegliare e contenere i malati si doveva occupare il manicomio, come se fosse semplicemente un asilo o ricovero per l’isolamento; deciso assertore dell’ergoterapia, non aveva trovato al suo arrivo reparti di lavoro, all’infuori di piccoli e poco frequentati laboratori di calzoleria e tessitoria per gli uomini, mentre le donne erano spesso occupate in lavori di cucito. Tentò allora di avviare mestieri che non richiedessero attrezzi speciali o pericolosi, come intrecciare la paglia, occupazione molto fiorente nelle zone agricole dell’entroterra fermano; però per mancanza di collaborazione del personale amministrativo che non aveva procurato materia prima sufficiente, questa “industria” non decollò. In particolare il Direttore, convinto che uno dei mezzi di cura più efficaci è il lavoro, soprattutto quello dei campi, per impedire il completo dissolvimento della psiche, lamentava l’assenza di una colonia agricola, che non gli riuscì assolutamente di organizzare.

Bisogna arrivare alla fine degli Anni Quaranta per vedere alcuni pazienti impegnati nei campi circostanti di proprietà della Provincia, attività non difficile per loro, data l’origine in massima parte contadina. Appartenevano al reparto tranquilli, erano alcolisti, schizofrenici non aggressivi, metereopatici; seguiti da infermieri e da un esperto agrario, si dedicavano a grandi coltivazioni e all’allevamento di mucche, con una produzione di latte che soddisfaceva le esigenze dell’intero manicomio. Il lavoro, impegnandoli, li calmava, ma nel 1956 un ricoverato uccise con la zappa un suo compagno accusandolo di essere uno sfaticato, un peso per la società che andava eliminato. Così ebbe termine l’esperienza, anche se qualche ricoverato continuò a lavorare in modo discontinuo nell’azienda agricola privata adiacente all’ospedale. Il Direttore di allora chiuse quella esperienza così come tutte le altre che prevedevano una riduzione del “controllo”. Bisogna ricordare che all’epoca l’ospedale poteva esprimere anche una valente compagnia Filodrammatica che purtroppo non riuscì più a riemergere, per carenza di sostenitori appassionati della drammatizzazione.

Negli Anni Sessanta un gruppo di pazienti sotto la guida degli infermieri si dedicò per qualche tempo a lavori di giardinaggio, potando alberi e curando le aiuole poste davanti all’ingresso e nel giardino delle magnolie che separa i due edifici; anche loro provenivano dal settore dei tranquilli e non mostravano un particolare piacere nella cura dei fiori svolgendo il lavoro in maniera automatica senza eccessiva partecipazione, dal momento che non potevano fare alcuna scelta personale bensì semplicemente eseguire ciò che veniva loro comandato; tuttavia accoglievano volentieri tale occupazione perché offriva la possibilità di uscire dal reparto.

 

 

 

 

La situazione dagli Anni Settanta ad oggi

 

All’inizio degli Anni Settanta la situazione generale non era molto migliorata. L’ergoterapia veniva ancora praticata in maniera saltuaria e disorganizzata, ad esempio erano i ricoverati a svolgere le mansioni di pulizia dei locali e di assistenza alle cucine con un compenso di tre, cinque sigarette nazionali a giorno. Questo perché non esisteva ancora la figura dell’ausiliario che, prevista dal Contratto di Lavoro Fiaro (che allora riguardava soltanto la Provincia di Ancona) era invece assente in quello della Unione Province Italiane, in vigore nelle altre tre province marchigiane. I pazienti aiutavano anche il materassaio nel rifacimento dei materassi in crine, lavoravano in lavanderia, facevano funzionare il rullo per stirare. Le donne erano soprattutto addette al guardaroba, dove, sotto la guida di una suora, cucivano, rammendavano, facevano maglie e calzettoni di lana.

I reparti mostravano una situazione generale di degrado: alcuni pazienti non si alzavano mai dal letto, altri andavano nel salone dove camminavano e giravano di continuo in tondo come automi con le spalle curve e lo sguardo perso nel vuoto. Figure grottesche con i vestiti sempre di una taglia non adatta, di colore scuro affinché risaltasse meno la sporcizia, gli uomini tenendosi i pantaloni con le mani poiché avevano dovuto consegnare la cintura nel rito disumanizzante e spersonalizzante dell’accettazione; il dottore che chiese di cucire un elastico ai pantaloni venne accusato dal Direttore di essere un rivoluzionario. Talvolta scoppiavano litigi per motivi futili, perché qualcuno aveva raccolto un mozzicone di sigaretta che un compagno aveva gettato oppure soltanto per uno sguardo troppo persistente che aveva colpito come una minaccia un sofferente di manie di persecuzione. Tra loro non parlavano, qualche volta gli alcolisti si sfogavano con gli infermieri perché una volta tornati lucidi si annoiavano e si lamentavano, avevano dei rancori nei confronti della famiglia che li aveva fatti rinchiudere. Nel reparto dei più “decaduti” era motivo di attrazione un personaggio straordinario, una specie di grosso orso che non riusciva ad esprimere parole ma soltanto suoni gutturali e si faceva capire aiutandosi con i gesti; alle 17 in punto di tutti i giorni si metteva addosso un lenzuolo impersonando un prete e iniziava a “recitare” la Messa. Poiché era stato chierichetto conosceva il rituale, tutti i gesti da fare, gli oggetti da spostare e con autorità ed alti suoni diversi ordinava ai suoi colleghi di prestarsi a questa sua recita.

I dottori erano ancora pochi: uno ogni 150 pazienti, ma almeno l’elettroshock non veniva più usato; gli infermieri non possedevano altra preparazione specifica che un corso tenuto dal Direttore.

A metà degli Anni 70 gli echi del generale fermento della società si fecero sentire anche all’interno del manicomio. Nei corsi semestrali, che la Provincia aveva istituito per il raggiungimento di un livello superiore da parte del personale paramedico, i medici poterono aggiornare gli infermieri con una diversa impostazione, più adeguata ai tempi: coloro che erano sempre stati considerati malati inguaribili ritornavano ad essere persone, con il diritto di riappropriarsi della propria dignità. Prima erano stati derubati di tutto, degli oggetti privati ma soprattutto della propria intimità, dei sentimenti e dei pensieri, rimanendo vuoti. Ora recuperavano il diritto di parlare e essere ascoltati; si cominciò a dialogare con loro per sentire dalla viva voce che cosa volevano fare, se volevano tornare a casa, quali erano le possibilità di rapporto con i familiari, se esistevano ancora.

Nel 1975 si fece la prima esperienza di uscita dei ricoverati, alcuni anche da soli, grazie anche all’iniziativa congiunta dei Sanitari, degli infermieri e del Servizio Sociale, finalmente inserito a pieno titolo nell’Organico dell’Ospedale Psichiatrico. Era stata una richiesta dei medici che, con la massima collaborazione di molti infermieri, si erano assunti la responsabilità assicurando che sarebbero riusciti a contenere gli eventuali eccessi. Il Direttore Bisio diede il proprio assenso senza fare nulla personalmente, perché il suo interesse primario era rivolto al una ristrutturazione architettonica più funzionale, ma anche questo lasciar fare fu importante perché ormai i tempi erano maturi: si erano messe in moto tutte le forze buone, positive, che vedevano che la situazione poteva essere gestita diversamente con buoni risultati, che si poteva fare un salto di qualità.

Poi si aprirono i reparti e nel tentativo di riallacciare un contatto con i parenti ci si imbatté in situazioni familiari disastrose, con sofferenze psichiche spesso più pressanti di quelle dei ricoverati; molte volte si scoprì che del paziente ricoverato da molti anni era stata cancellata ogni traccia, era sparita la camera, il letto, qualsiasi oggetto gli appartenesse e c’era in famiglia chi non conosceva neanche la sua esistenza. In questi e in molti altri casi fu difficile far accettare il ritorno a casa. Si formarono delle équipes con tutte le figure professionali distinte per zone, (Ascoli Piceno, San Benedetto, Amandola, zona calzaturiera) che in un primo tempo avevano il compito di riportare i pazienti nei luoghi d’origine, dopo la dimissione. Successivamente si trattava di fare controlli a domicilio per il mantenimento dello stato di salute, ma in quelle occasioni si veniva talvolta interpellati anche dai vicini che chiedevano informazioni e consigli o avvisavano dell’esistenza di altri casi nella zona. La Salute Mentale iniziava a spostarsi sul territorio, mentre si cercava di ridurre gli svantaggi e i disagi delle condizioni dei ricoverati

Fu un momento particolare: c’era un’atmosfera di grande entusiasmo e partecipazione, si tenevano assemblee molto partecipate nei comuni più diversi. Per spiegare che la malattia mentale non era proprio quello che si era detto e pensato fino ad allora, gli infermieri “d’assalto” andavano anche nei paesetti più lontani (Acquasanta, Folignano, Roccafluvione ecc, soprattutto nell’ascolano da dove essi provenivano) con la propria macchina finché la Provincia non mise a disposizione delle Fiat 127. Quando arrivò la Legge 180 paradossalmente non fu d’aiuto; dal momento che prima si era combattuto per ideare ed applicare qualche cosa di nuovo, il fatto che ci fosse una legge che sanciva una volontà superiore, mentre prima ci si affidava all’inventiva, determinò una stasi nell’entusiasmo. Nacquero degli ambulatori, ognuno con un Direttore, aperti regolarmente con orari e personale fisso, in sostituzione dei centri d’igiene mentale.

Negli Anni 80 molti pazienti che non avevano potuto tornare a casa erano rimasti ospiti della struttura; con loro si sperimentò la vacanza in alberghi di montagna, a Sassotetto, a Roccaraso, Carpegna, talvolta con la compagnia dei parenti (madri, fratelli, sorelle, zii) che avevano mantenuto i contatti con loro ma non si prendevano la responsabilità di ospitarli. Il Servizio Sociale che gestiva questi soggiorni fu di estremo stimolo per i pazienti. Riducendo la medicalizzazione si riducevano le difese individuali dei soggetti e le angosce che venivano a galla erano superate nel gioco e nel rapporto personale più caldo: quei pazienti tornavano ad essere considerate “persone” e trattati come tali. Queste situazioni di distensione, di svago e di distanza dalla struttura, comunque oppressiva per i suoi ricordi anche se aperta, permettevano di comunicare meglio: per esempio le persone di campagna tiravano fuori degli stornelli. Ogni paziente aveva una storia di cui non si era mai parlato e al termine di una lunga riflessione ci si rese conto che se alcune cose potevano essere espresse verbalmente, molte altre rimanevano celate: irrigidite e ingessate nella loro esperienza patologica sarebbero rimaste per sempre intraducibili in parole. Era necessario perciò ricercare dei linguaggi alternativi, motòri, musicali, grafici, gestuali. E fu il momento delle feste, del Carnevale, delle gite: in questo furono fondamentali anche gli interventi degli allievi Educatori professionali che svolgevano il loro tirocinio nei reparti dell’Ospedale Psichiatrico e nelle strutture Riabilitative finalmente messe a disposizione dalla nostra ASL con i finanziamenti Regionali.

Quando si aprì il Centro di Salute Mentale (che nel tempo ha cambiato la sua denominazione, secondo i dettami Nazionali e Regionali, in Struttura Residenziale Riabilitativa) in cui vennero accolti i pazienti senza esperienza manicomiale, si cercarono nuovi criteri e nuove terapie. Si voleva verificare se su soggetti non ospedalizzati si potevano ottenere risultati migliori, utilizzando tecniche alternative d’approccio al disagio. La conferma dei presupposti ci stimolò a riportare nella vecchia struttura Istituzionale, divenuta intanto Centro Residenziale di Assistenza Socio Sanitaria, le metodologie più moderne e più aderenti alla società che stava cambiando.

Ci si affidò prima di tutto alla Psicomotricità per favorire l’instaurazione di un rapporto diverso con il proprio corpo, per sollevare il coperchio chiuso di un pozzo. Gli psicotici di solito hanno un difetto di comunicazione, si chiudono in se stessi, non vogliono avere alcun rapporto tattile con gli altri, schivano qualsiasi contatto anche fuggevole o casuale; inoltre dimenticano di avere cura del proprio corpo, sono sudici.  Incoraggiando la cura del sé e favorendo un rapporto migliore con il proprio corpo, forse si sarebbe aperto uno spiraglio per un rapporto con gli altri. Un’esperienza senz’altro positiva fu quella della piscina: ritrovandosi in una situazione di protezione quasi da liquido amniotico, si lasciavano andare alle carezze dell’acqua mostrando un evidente piacere. Ma anche l’ippoterapia fu di grande giovamento; il rapporto con l’animale risultò semplice e bello, in particolare nel caso di un ragazzo gravemente autistico che si elettrizzava salendo a cavallo e nel saggio finale fece il suo percorso canticchiando. Anche la pet therapy sarebbe stata di grande ausilio, ma era molto rischioso accogliere gatti e cani, poiché se fossero fuggiti o morti avrebbero causato grandi sofferenze a chi si era affezionato loro. Altro rapporto da ricostituire era quello con la natura. Nel 1995 fu attuato un esperimento di coltivazione di piante medicinali, essenze e odori per la cucina nello spazio adiacente al Centro. Un biologo insegnò alcuni fondamenti per una cultura della natura: piantare, seminare, i cicli, la crescita, la potatura.

Nel frattempo, dopo le ultime dimissioni dal CRASS nel 1998, quando il Governo decise la chiusura definitiva dei Manicomi, i pochi ospiti rimasti trovarono sistemazione in Istituti o Case di riposo rientrando nei loro territori di origine o più vicino ai loro familiari. Ma le esperienze iniziate non vennero abbandonate; là dove i pazienti erano più numerosi si è imposta la presenza di Educatori Professionali che potessero continuare la loro funzione di stimolo e di riabilitazione. Gli effetti positivi di queste presenze hanno costituito una specie di volano anche per gli anziani ospiti di quelle Strutture, spesso abbandonati e in attesa della volontà del Signore.

Il secondo gradino della sperimentazione fu l’uso di linguaggi creativi; il concetto di ergoterapia si stava infatti ampliando in quello di ludoterapia, nella quale il soggetto può coniugare l’impegno, il saper fare, il dimostrare di avere capacità, con l’espressione di quella interiorità tanto a lungo taciuta. Si iniziò con corsi di musicoterapia, privilegiando tra i sistemi non quello francese che consiste soltanto nell’ascolto, bensì quello anglosassone che prevede una partecipazione attiva. Ma è stato forse il corso di pittura e poesia a produrre gli esiti più soddisfacenti. A dimostrazione che queste esperienze possono dare grandi frutti valga fra tutti l’esempio di una donna di 40 anni che aveva fatto il Liceo e mentre frequentava l’Università era stata ricoverata all’ospedale di Teramo, dove era sempre legata a letto e non aveva alcun rapporto con il suo territorio di origine. Quando venne trasferita a Fermo urlava, strepitava, lanciava minacce. I medici cercarono di capire la sua personalità e si decise con il Personale di cambiare atteggiamento, di interrompere cioè il corto circuito urla, minacce-intervento terapeutico contenitivo, pensando che se avessero raccolto le sue provocazioni ponendosi al suo stesso livello lei avrebbe continuato a “fare la matta” e loro avrebbero continuato a considerarla tale. Non raccolsero la sfida ad ogni sua crisi e lei cominciò, sorpresa, a ridurre le sue reazioni; si tentò di entrare in contatto con lei stimolandola nei suoi interessi. Fu trattata come una persona, portata a pranzo fuori, al mercato a comprare vestiti nuovi. Oggi abita con la madre che non ha più paura di lei, vive la sua vita quasi normale e non ha più lanciato minacce, scrive poesie, ha disegnato e dipinto con grande delicatezza.

Il laboratorio di scrittura e pittura è nato per mettere a disposizione un atelier, “una bottega” dove potesse avvenire lo scambio tra la Maestra d’arte e gli allievi; solo per carenza di disponibilità di altri spazi si è dovuto occupare il piano terra, oggi vuoto, di un reparto del vecchio Manicomio. Questo laboratorio, detto significativamente L’aquilone, è frequentato sia dagli ospiti della Struttura Residenziale che da coloro che sono tornati ad abitare con i familiari. Grazie alla volontà di vivere dei pazienti, la passione e la speciale sensibilità degli operatori, quella vite celate si sono venute man mano svelando attraverso il piacere di distendere i colori, spesso vivaci e rutilanti, e, cosa ancor più degna di nota, attraverso la parola poetica. I risultati sono in due volumi di toccante verità dai titoli significativi: Là dove il sole e la luna si incontrano; Il volo dell’aquilone.

Ma non ci si è fermati a questo. Oggi si stanno portando avanti Progetti di integrazione con l’Istituto d’Arte e con alcuni artisti della città. I ricordi di quelle mura escludenti stanno sfumando mentre appaiono, sempre più nette agli occhi dei nostri amici, una volta pazienti oggi PERSONE, le mura delle case, della città con le luci e il calore dell’accoglienza.

Speriamo che la Storia possa parlarci, in futuro, dei loro continui progressi.

 

 

 

 

 

1- Il manicomio di Fermo, relazione del Direttore dottor Romolo Righetti, Stabilimento Grafico G. Cesari, Ascoli Piceno, 1916 (Da tale testo sono tratte tutte le citazioni in corsivo)

 

 

 

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